Maledetti Architetti

Le foto di scena

di

Simone Ferraro

LocMalArchdef.jpg (113346 byte)

Le foto di scena

di

Luigi Pisapia

Per gentile concessione dell'autore - da Livecity.it

 

Recensione della divertente commedia “Maledetti Architetti” al Teatro Tordinona

di Marco Maimeri

 

Una commedia musicale piacevole che affronta problematiche serie, ai limiti del post-moderno, con una semplicità disarmante, un’ironia sottile e una leggerezza unica.

È la storia di un anonimo ragioniere, che dopo una lunga giornata di lavoro, conclusasi con una cena sociale noiosa ed estenuante, torna a casa, in piena notte, in un immenso palazzone di un immenso quartiere di periferia. La traversata della città è un viaggio infernale, solo che al posto del Nuovo Mondo, della petrosa Itaca o del dantesco Ade la sua meta è semplicemente il letto, il “suo” letto.

Nella notte buia e insidiosa percorre chilometri di strade che non finiscono mai. Pieno di sonno e dei fumi dell’ultima grappa bevuta, tenta inutilmente di aprire la porta di casa. Alla fine, quando si apre, gli si rivela un incubo senza fine. La sua casa non è più la sua casa. Ora è abitata da un altro uomo, grande, goffo, da poco abbandonato dalla moglie.

Anche i vicini, richiamati sul pianerottolo dalla confusione, gli sono sconosciuti. Così l’anziana signora che soffre di claustrofobia ed è costretta a guardare il mare, basso all’orizzonte, solo da una finestra. Così la giovane ragazza, nipote di quest’ultima, che dipinge variopinti murales pieni di fiori sui muri della città, tentando di coprirne lo spento grigiore con colori accesi. Così le donne delle pulizie che sono talmente prese a portare a termine il loro circolare turno lavorativo da sembrare quasi sospese fra vita reale e sogno di folletto.

Così l’uomo che si è perso nel labirinto di piani e corridoi di quello strano condominio, alla ricerca del mare. Così, accompagnata da un giovane vessato agente immobiliare, la coppia sposata il cui marito cerca casa o semplicemente studia la notte spiandone i rumori nascosti, cercando un posto asettico e insonorizzato dove finalmente trovar pace, riposo, se stesso. Così Viola, l’affascinante ragazza della porta accanto che tutti vorrebbero amare senza dar scandalo. Così l’architetto, anch’egli senza risposte davanti al senso di disagio che questi spazi così alienanti sanno incutere.

Una commedia surreale, che si dipana all’interno di un crogiuolo emotivo rorido delle nevrosi più disarmanti, delle manie più acclarate, dei caratteri più strampalati dell’essere umano del Nuovo millennio. Lo spettatore si fa, suo malgrado, voyeur di un microcosmo in grado di suscitare ilarità, pensieri, considerazioni e divertimento, nonché di un vasto campionario di umane debolezze in cui tutti, volenti o nolenti, si possono catarticamente riconoscere.

Una commedia musicale, una «garbata critica all’architettura moderna», come la definisce il suo autore Carlangelo Scillamà, che scivola via lasciando dietro di sé un pizzico di buon umore, strappando un velato, soddisfatto sorriso. Merito degli attori coinvolti, Giulio Bentivegna, Aldo Cerasuolo, Silvana Marazzi, Luca Milano, Silvana Pisapia, Carla Piubelli, Angela Russian, Elena Salvi, Simone Serini, Maria Laura Taurelli Salimbeni e Roberto Zenca, che entrano perfettamente nella parte e rendono a meraviglia il clima onirico-straniante evocato da questa vicenda.

Ma merito anche dell’abile regia di Masaria Colucci, della claustrofobica scenografia di Silvana Guerriero e delle musiche di Raffaele Paglione, arrangiate a metà strada fra jazz e pop, pop e rock, da Andrea Pagani e Francesco Marchetti. Ogni tanto qualche melodia, almeno come atmosfera, ricorda Gaber o De Andrè, altre volte la voce della pittrice di murales somiglia a quella di Syria, anche se il suo personaggio è quasi sempre caratterizzato da una musicalità vicina all’hip-hop melodico dei più giovani.

In definitiva, un lavoro piacevole da vedere e da ascoltare. Un modo diverso di confrontarsi con le commedie musicali d’oltreoceano, perdendosi piacevolmente nell’idioma italiano e costatando con tenerezza quanto sia “strano” per noi il cambio fra testo parlato e testo cantato. In inglese farebbe lo stesso effetto? Chissà…

Marco Maimeri

14.07.2007